mercoledì 15 gennaio 2014

CAPITALISMO IPERCONSUMISTA. ORESTE PIVETTA, Destino segnato, noi consumati dai consumi. Recensione a B. Barber, Consumati, L'UNITA', 9 maggio 2010

I bambini di sei mesi sono in grado di costruirsi immagini mentali dei loghi e delle mascotte delle aziende. Alla maniera delle oche che adottavano Konrad Lorenz come un padre o una madre, vista la sua faccia barbuta aprendo gli occhi, i neonati d’oggi pare si tengano fissi al cuore la sigla di omogeneizzati o la griffe di un costumino. Li manderanno a memoria per il futuro.

ASCOLTA LA LETTURA DI ALCUNE PAGINE DEL LIBRO DI BARBER:
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/letture-da-radio24/2011-01-02/barber-veneto-barnard-175410.php?idpuntata=gSLAE4Gv&date=2011-01-02


Nascono consumatori. Secondo l’inchiesta del Center for a New American Dream, citata da Benjamin R. Barber, professore di Civil Society nell’Università del Maryland e tra i fondatori di Democracy collaborative, nel suo saggio Consumati. Da cittadini a clienti, «si può indurre la fedeltà alla marca già nei bambini di due anni». La strada è aperta: «Al momento di andare a scuola, la maggior parte dei bambini è in grado di riconoscere centinaia di marchi». Il destino è segnato: eravamo gente qualunque, potevamo diventare cittadini del mondo, siamo consumatori. Da qualunque parte la si veda, da destra o da sinistra, il progresso si vuole cammini sulle gambe dei consumi e se arriva la crisi si rimedia con l’invito a consumare di più, per irrompere nel modo dorato dell’inutilità, nell’era degli eccessi, per chi può, nell’«era del troppo», come scrive Giorgio Triani in un altro saggio, L’ingorgo, riducendo al consumismo la sostanza della modernità e lo stesso senso della convivenza.

Talmente indotti al consumismo da trascorrere le domeniche di fine mese a stipendio consunto negli outlet ai nodi autostradali a guardare le vetrine, ponderare i prezzi e godere la condizione dell’acquisto senza l’acquisto. Persino il Primo Maggio si sarebbe dovuto piegare alla nuova legge. Le discussioni italiane nella banalizzazione dei giorni scorsi sull’apertura o meno dei negozi rivelano una novità di gerarchie: prima i consumi, poi il lavoro, un’inversione culturale rispetto all’idea della produzione che s’era alimentata nel secolo dell’industria. Perché l’imperativo è diventato inventare bisogni e quindi consumi, non produrre merci. Il «sistema» ricorre a qualsiasi mezzo per raggiungere il traguardo, fondamentale per la sua prosperità, compresa la corruzione: la «corruzione» che induce l’uomo adulto consumatore, dopo il bambino consumatore invecchiato precocemente davanti al biberon, a deviare dalle proprie responsabilità pur di non lasciarsi alle spalle alcuno dei consumi possibili, anzi di recuperare quelli smarriti negli anni. Barber scrive di infantilizzazione… È l’estensione dell’età delle compere, prima fissata entro i limiti di una maturità cui corrispondevano obblighi e lavoro. È lo scavalcamento delle stagioni naturali della vita, per cui una bambina di dieci anni si traveste da vamp biondo platino e la madre di quaranta indossa le maschere della teen-ager. È un mondo così, dove ogni luogo può essere un centro commerciale.

Distendendo lo sguardo oltre i nostri confini d’Occidente opulento, le differenze però sono tragiche: si muore di fame, nello stesso primo mondo sopravvivono i ghetti dell’indigenza, delle nuove povertà e dell’abbandono. Gli Stati Uniti e il Canada, che rappresentano poco più del cinque per cento della popolazione mondiale, controllano quasi un terzo delle spese globali relative ai consumi privati, l’Africa sub sahariana, con l’undici per cento della popolazione, spende per i propri consumi poco più dell’uno per cento… La tragedia sta in una diseguaglianza che si approfondisce. Il paradosso è che nessuno corre in aiuto degli affamati senza reddito perché diventino consumatori: se il mercato deve prosperare è più facile indurre bisogni nuovi tra adulti ormai soddisfatti, ma detentori di un reddito, piuttosto che riparare storiche ingiustizie. Dare ai ricchi prima che ai poveri.

Avverte ancora Barber: «l’ethos commercializzante dell’infantilizzazione stimola ed è stimolato da un’ideologia politica di privatizzazione che delegittima beni pubblici adulti come il pensiero critico e il senso civico… a favore del ripiegamento su se stessi in funzione delle proprie scelte private finalizzate al vantaggio narcisistico…». Si torna bambini, per giunta stupidi, lungo un declinare che trascina con sé la democrazia, la cultura, i doveri, il valore della convivenza: nella corsa a consumare oltre i propri bisogni si cela un rischio per la democrazia. Barber osserva come l’infantilizzazione sia un meccanismo tipico dei regimi totalitari: basterebbe rivedersi un’adunata fascista o il gerarca che salta il cerchio di fuoco. Arriviamo al centro, cioè alla politica, e ovviamente si dovrebbe cercare una risposta. Ce ne propone una Raj Patel, un professore d’economia, che ha lavorato per la Banca mondiale e per il Wto, lasciandoli in polemica, e che ora insegna in una università sudafricana. In Italia, due anni fa, Feltrinelli aveva pubblicato uno dei suoi saggi: I padroni del cibo. Adesso, con Il valore delle cose, Raj Patel ci riconduce attraverso i temi dell’economia mondiale e quindi della grande crisi.

Citando il sottotitolo, le illusioni del capitalismo, si potrebbe concludere che il libro è sostanzialmente una forte critica del capitalismo, incapace di prevedere o di fronteggiare nel rispetto di regole di convivenza civile (e universale) le sue defaillance. Patel guarda al futuro, avverte i pericoli, ma riconosce che siamo ancora in tempo per scansare quelli mortali. Patel riscopre percorsi di una storia del pensiero, da Adam Smith a Karl Marx e naturalmente a Keynes, l’economista più citato di questi tempi, quando insomma nel disastro s’è scoperto che il capitalismo, il capitalismo delle corporation, da solo non ce l’avrebbe fatta e che sarebbe stata necessaria la mano dello stato per riparare i danni. Keynes era stato chiaro: grandi opere pubbliche per creare lavoro che genera salari che spingono ai consumi che a loro volta stimolano produzione e quindi lavoro…

QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA Patel è in un certo senso un keynesiano che però ha in testa alcuni principi democratici. Sa anche lui quanto poco democratica sia l’economia mondiale e quanto, senza mettere in discussione la proprietà, sia necessaria una idea più malleabile di proprietà e sia necessario che i mercati siano subordinati ai principi democratici di equità e sostenibilità. È questione di vita o di morte, di sopravvivenza del pianeta, contro i danni monumentali che è capace di produrre il libero mercato: nel «valore delle cose» si dovrebbe ad esempio valutare certo il peso del lavoro che le fabbrica, dell’immaginazione che le inventa, della conoscenza che le progetta, ma si dovrebbero anche considerare quei danni che nessuno ripaga, che si ridistribuiscono ancora una volta in maniera iniqua su tutto il pianeta, che probabilmente non riusciremo mai a cancellare, anzi, e che si chiamano inquinamento, spreco delle risorse, progressivo deterioramento della terra. Petrolio che si disperde da una chiatta in mezzo al mare.

Scrive Patel che per trascendere i limiti imposti dal mercato dovremmo sperimentare diversi modi di condividere il mondo e stabilire i confini della gestione collettiva delle risorse, che per riconquistare la politica noi dovremmo far leva su più immaginazione, più creatività e più coraggio. Gli esempi di immaginazione, creatività, coraggio, leggendo, li ritroverete e potrebbero diventare suggerimenti. Lo dico agli scoraggiati della sinistra italiana, a quanti non hanno ancora perso un filo di fiducia nella politica. Vale un riferimento a Gandhi e concludo rileggendo quanto scrive Patel: «Reclamare la capacità di sfidare la società di mercato, reclamare il diritto ad avere diritti, è un lavoro molto arduo. Per cominciare, significare ritrovare la voglia di conflitto… Ogni filosofia del cambiamento sociale ha una sua visione dell’ostilità. La filosofia di Gandhi non era come alcuni l’hanno ricostruita, un grande padiglione di preghiere e incenso. Pur essendo non violenta, prevedeva l’opposizione e il conflitto: un’opposizione indubbiamente gentile, ma comunque un’opposizione». Il conflitto, dunque. Proviamo a ripensarci.                                                                                                     

Nessun commento:

Posta un commento