sabato 2 luglio 2016

BANGLA DESH ED ECONOMIA TESSILE. REDAZIONE, 700 FABBRICHE TESSILI IN SCIOPERO NEL BANGLADESH, L'INTERNAZIONALE, set-ott. 2010

Da giugno ad agosto non si sono fermati gli scioperi nell’industria tessile del Bangladesh, la miniera d’oro di braccia per i colossi dei marchi di abbigliamento più venduti del pianeta, compresi quelli della moda italiana.


Durante l’estate le uniche – tragiche – notizie che ci sono arrivate dal sub-continente indiano parlavano di una spaventosa stagione di monsoni, che hanno investito con piogge di eccezionale violenza soprattutto Pakistan, India ma anche alcune regioni della Cina e del Bangladesh. Le cronache hanno sottolineato la scarsa affluenza degli aiuti internazionali, inviati con il contagocce col pretesto che in quelle regioni sarebbero stati intercettati dalla guerriglia islamica.
Evidentemente però si tratta di zone che non destano altrettanta preoccupazione quando si tratta di fare affari, con l’intermediazione più o meno determinante delle società locali, per lo sfruttamento della manodopera.
In Bangladesh approfittano degli operai peggio pagati del mondo – secondo un’indagine della confederazione internazionale dei Sindacati – aziende di fama e ben conosciute nel mondo occidentale, americane, europee e naturalmente anche italiane, come H&M, Zara, Tommy Hilfiger, Levi Strauss, Benetton, e catene di distribuzione come Carrefour, Wal-Mart, el Corte Ingles, Coin-Oviesse, che da qualche mese controlla anche Upim.
Alcune imprese delocalizzano la produzione, ma la maggior parte acquistano il prodotto già finito attraverso società create appositamente o appoggiandosi a prestanome, il che consente di gestire questi acquisti in modo flessibile, rivolgendosi di volta in volta al mercato più conveniente: Bangladesh, appunto, ma anche Pakistan, India, Cina, Vietnam. Fino al 1 gennaio 2005 le esportazioni di tessuti e manufatti di questi Paesi erano limitate da un sistema di quote e sottoposte a una serie di limitazioni, che in sostanza garantivano la produzione occidentale. La scadenza del cosiddetto accordo multifibre ha di fatto liberalizzato il mercato del tessile, e oltre a spiazzare parecchie aziende, comprese quelle italiane, ha scatenato una lotta senza quartiere per la conquista di quote di mercato nei Paesi del Terzo Mondo. Le conseguenze mostrano tutta la spietatezza del sistema capitalistico: per sostenere la concorrenza, il primo e più semplice dei modi è il contenimento salariale. In Bangladesh, dove i lavoratori del tessile superano sicuramente la cifra di due milioni, ma alcune fonti parlano addirittura di tre milioni e mezzo di addetti, i salari sono fermi dal 1994, e - non a caso - sono destinati in larga misura a manodopera femminile. Si tratta di salari che non superano i 1600/1800 taka al mese, cioè più o meno 25 dollari (18 euro), per orari di lavoro massacranti di 12 – 15 ore al giorno, e condizioni di lavoro disumane. La sicurezza, naturalmente, è solo un optional, e il rischio d’incendio in fabbrica è altissimo: sembra che il tempo non sia mai passato dal 25 marzo 1911, quando un incendio sconvolse la fabbrica di tessuti Triangle di New York, causando 146 vittime, quasi tutte operaie immigrate. Oggi in Bangladesh gli incendi in fabbrica sono all’ordine del giorno, alcune fonti ne citano 240 dal 1990 ad oggi, ultimo quello della fabbrica Garib e Garib di Gazipur, dove a febbraio di quest’anno 15 operaie e 6 operai sono morti intrappolati nell’edificio che, come quello della Triangle all’inizio del secolo, aveva uscite di sicurezza sbarrate e portone chiuso a chiave.
Dal 13 al 21 giugno decine di migliaia di lavoratori del tessile sono scesi in sciopero nella regione intorno alla capitale Dakka, per rivendicare aumenti che portino i loro salari ad almeno 5000 taka, cioè circa 78 dollari al mese. Hanno bloccato le fabbriche e occupato importanti arterie stradali, trovando ad accoglierli reparti di polizia con manganelli, lacrimogeni, proiettili di gomma, che hanno causato il ferimento negli scontri di almeno un centinaio di lavoratori. Per ritorsione, il padronato si è servito di un’arma classica del conflitto di classe, e ha ordinato la serrata di tre fabbriche nel distretto di Ashulia. La protesta non si è fermata, anzi ha ripreso vigore e l’intera area si è trasformata, secondo il giornale americano Daily Star "in un virtuale campo di battaglia". Il padronato ha risposto con la serrata di 250 fabbriche, revocata un paio di giorni dopo sotto la pressione delle ordinazioni inevase. I lavoratori sono rientrati in fabbrica sotto la sorveglianza della polizia, ma le agitazioni non si sono esaurite, mentre non è ancora chiaro che cosa siano riusciti ad ottenere, dato che l’Associazione padronale del settore tessile non sarebbe stata disposta a concedere più di 3000 taka.
In realtà, ancora ad agosto scioperi e manifestazioni di protesta dei lavoratori tessili continuavano, e la proposta governativa che ricalcava la disponibilità padronale è stata semplicemente rifiutata. La risposta è stata la linea dura, l’associazione padronale ha chiesto (e ottenuto) l’intervento governativo per contenere i lavoratori, con l’arresto di 21 sindacalisti e l’assicurazione di interventi repressivi per il futuro.
A oggi non conosciamo lo svolgimento successivo di queste lotte, ma è certo che una massa di lavoratori in sciopero di queste dimensioni e con questa determinazione, fa paura a imprese e governi.

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